ADHD: mancanza di disciplina o disturbo del neurosviluppo?
In occasione del mese dedicato all’ADHD, proponiamo un approfondimento su questo tema sempre più discusso negli ultimi anni. L’ADHD è davvero un disturbo mentale? Ripercorriamo insieme la sua storia, la sintomatologia e le terapie oggi disponibili. A rispondere alle nostre domande è il dott. Michele Mattia, Fondatore e Presidente della Società Ticinese ADHDti, esperto nel trattamento del disturbo nel Canton Ticino.
Sempre più spesso negli ultimi anni si sente parlare di ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività), una condizione del neurosviluppo che ha acquisito crescente popolarità. Eppure non si tratta di una scoperta recente: tracce di questa condizione si trovano già alla fine del XVIII secolo .
Il vero riconoscimento diagnostico arriva però negli anni ’80, quando il disturbo viene inserito nel manuale DSM-III (1980) come “Attention Deficit Disorder”. Nel 1987, con il DSM-III-R, assume la denominazione attuale: ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder).
Solo negli ultimi anni, tuttavia, il disturbo ha raggiunto un livello significativo di consapevolezza nella popolazione generale. Questo cambiamento è dovuto a diversi fattori convergenti:
Gli studi neuroscientifici hanno approfondito i meccanismi biologici e genetici alla base della condizione, chiarendo definitivamente che si tratta di un disturbo neuropsicologico e non di “pigrizia” o “mancanza di disciplina”. Questa evidenza scientifica ha contribuito a legittimare l’ADHD come condizione medica.
Le testimonianze personali hanno giocato un ruolo fondamentale: sempre più persone condividono pubblicamente le proprie esperienze con l’ADHD, contribuendo ad abbattere lo stigma e a normalizzare il dialogo intorno al disturbo.
L’estensione della diagnosi agli adulti ha ampliato significativamente la diffusione delle informazioni. Il riconoscimento che l’ADHD non è solo un disturbo infantile, ma può persistere in età adulta, ha permesso a molte persone di identificare finalmente le proprie difficoltà.
Il contesto sociale contemporaneo, infine, ha reso i sintomi più visibili: viviamo in un mondo che richiede attenzione continua, multitasking costante e gestione simultanea di molteplici stimoli. In questo ambiente, le caratteristiche dell’ADHD – difficoltà di concentrazione, distraibilità, impulsività – diventano più evidenti e problematiche, rendendo il disturbo più facilmente riconoscibile sia da chi ne soffre che da chi osserva.
Nonostante questa crescente popolarità, il tema rimane complesso e difficile da comprendere. Per questo motivo ci rivolgiamo al dott. Michele Mattia, esperto nel trattamento di questo disturbo.
Dott. Mattia, i sintomi dell’ADHD possono essere facilmente confusi con normali tratti di personalità, come la semplice “vivacità” o “mancanza di concentrazione”. Come si diagnostica con certezza l’ADHD senza banalizzare la condizione?
Oggi possiamo finalmente parlare di diagnosi di ADHD anche negli adulti — un passo avanti importante, reso possibile solo dal DSM-V, pubblicato nel 2013. Per poterlo diagnosticare in età adulta, è però fondamentale verificare che i sintomi fossero già presenti durante l’infanzia, indicativamente tra i cinque e i dodici anni. Questo significa che il processo diagnostico richiede un lavoro di ricostruzione molto accurato: si raccolgono informazioni attraverso un’anamnesi dettagliata, coinvolgendo se possibile i genitori o consultando vecchie pagelle e osservazioni degli insegnanti, che spesso possono offrire indizi preziosi.
È importante ricordare che non esiste un unico modo in cui l’ADHD si manifesta. Parliamo infatti di un disturbo che può presentarsi in forme diverse. C’è il tipo misto, che combina sintomi disattentivi e iperattivi; il tipo prevalentemente disattentivo, in cui l’impulsività è più mentale che comportamentale — la persona vive un flusso continuo di pensieri che si accavallano, rendendo difficile mantenere la concentrazione nelle attività quotidiane, ma senza essere fisicamente irrequieta; e infine il tipo prevalentemente iperattivo-impulsivo, dove prevalgono agitazione, difficoltà a stare fermi e tendenza ad agire senza riflettere.
Un altro aspetto fondamentale riguarda le differenze di genere, che rendono la diagnosi nelle donne spesso più sfumata e complessa. Nelle donne, infatti, la difficoltà di concentrazione si associa spesso a una maggiore insicurezza e instabilità emotiva. Questi sintomi possono facilmente essere interpretati come ansia, e non di rado la diagnosi iniziale è proprio un disturbo d’ansia. Inoltre, la componente ormonale gioca un ruolo importante: gli estrogeni influenzano l’attenzione, il controllo degli impulsi e il sistema dopaminergico, che è quello della ricompensa. Per questo motivo, nelle donne la disregolazione emotiva può accentuarsi in determinati momenti del ciclo, come nella fase premestruale.
Quali fattori ambientali possono influenzare lo sviluppo e il decorso del disturbo?
L’ADHD è un disturbo del neurosviluppo con una forte componente genetica e familiare. Non è raro che, quando una persona riceve la diagnosi, si scopra che anche altri membri della famiglia presentano tratti simili, magari mai riconosciuti come tali. Accanto alla predisposizione genetica, alcuni fattori ambientali possono influire: una famiglia trascurante, aggressiva o disgregata può favorire l’emergere del disturbo e peggiorarne la prognosi. Anche l’esposizione prenatale a sostanze come nicotina, alcol o droghe è considerata un fattore di rischio.
Una volta diagnosticato, è importante evitare comportamenti che influiscono sulla sintomatologia, come l’uso di sostanze, la disregolazione delle emozioni, le situazioni sociali caotiche o l’interruzione del percorso formativo. In particolare, negli uomini non diagnosticati è frequente l’uso di alcol o droghe come forma di “autoterapia”.
L’intervento terapeutico si basa su due pilastri: quello farmacologico, con l’uso di stimolanti o anfetamine, e quello psicoterapeutico, che comprende la Terapia Cognitivo-Comportamentale, la mindfulness e, in alcuni casi, percorsi di coaching specifico per l’ADHD (per il paziente ma anche per i familiari). Poiché il disturbo tende a persistere nell’età adulta nel 60-70% dei casi, una diagnosi precoce è fondamentale per migliorare la prognosi.
Infine, un aspetto spesso sottovalutato: il primo miglioramento che la diagnosi porta non è solo clinico, ma emotivo. Molte persone, sono contente di ricevere la diagnosi. Smettono di sentirsi “incapaci” o “sbagliate” e trovano sollievo nel comprendere che le proprie difficoltà hanno una spiegazione.
L’ADHD può modificare le sue manifestazioni o si può “guarire”?
L’ADHD può modificare le manifestazioni in base ai fattori di stress che la persona incontra, come perdite precoci, traumi, mancato raggiungimento di obiettivi professionali, instabilità relazionale o dipendenze.
Non si “guarisce” nel senso stretto del termine, ma se l’ADHD viene diagnosticato adeguatamente e si attuano tutte le terapie conosciute, si può vivere bene con la condizione, senza che essa abbia un impatto negativo.
Si sente spesso parlare di “ADHD ad alto funzionamento”. Come si riconosce?
L’ADHD ad alto funzionamento sociale descrive soggetti in grado di mantenere relazioni sociali e lavorative appropriate. Queste persone utilizzano strategie di compensazione che minimizzano l’impatto dei sintomi. Non sempre riconoscono la propria condizione, definendosi spesso come persone con un certo tipo di “carattere” piuttosto che con l’ADHD.
Questa condizione può rimanere mascherata, in particolare l’ADHD ad alto funzionamento sociale/cognitivo e l’ADHD disattentivo con procrastinazione.
Un esempio tipico di diagnosi tardiva riguarda professionisti che, pur avendo successo nel loro campo, lottano internamente. Ad esempio, un professionista può eccellere nel suo lavoro clinico, ma uscire dallo studio 2-3 ore più tardi la sera rispetto ai colleghi perché la parte amministrativa del lavoro, che non cattura la sua attenzione, lo porta a perdersi, rinviare e procrastinare regolarmente.
Le persone che riescono a trovare un’attività lavorativa che coincide con il proprio interesse personale sono quelle che possono sfruttare al meglio le caratteristiche dell’ADHD, come l’iperfocalizzazione. Al contrario, la condizione diventa invalidante quando la persona non incontra un’attività lavorativa appropriata, un gruppo sociale di supporto o una relazione accogliente, rischiando di non riuscire ad avere un’attività lavorativa o una famiglia.
In Ticino, i casi diagnosticati sono in aumento? Cosa consiglia a chi si riconosce in questi sintomi?
Negli ultimi anni, si è osservato un aumento significativo delle diagnosi di ADHD, grazie anche al fatto che finalmente è possibile porre la diagnosi nell’adulto. La valutazione si effettua su tre tappe: una valutazione psichiatrica con la somministrazione di test, l’intervista semistrutturata DIVA-V, e infine una valutazione neuropsicologica.
La fascia d’età che maggiormente richiede una valutazione (spesso autonomamente, tramite blog, social o intelligenza artificiale) è quella dai 20 ai 40 anni.
Il consiglio fondamentale è che chiunque si riconosca nei sintomi, o i genitori che notano segnali nei propri figli, proceda a una valutazione diagnostica al fine di poter intervenire il prima possibile con gli approcci farmacoterapici e psicoterapici conosciuti. In Ticino è stata fondata un anno e mezzo fa l’Associazione ADHDti, associazione che si occupa in modo particolare della conoscenza e della diffusione, nonché delle valutazioni di tutte le persone che soffrono di ADHD.
